E' morto Bruno Trentin! Sindacalista e straordinario intellettuale. Un intervista ad un suo allievo: Fausto Bertinotti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bruno Trentin era un sindacalista e uno straordinario intellettuale dominato dal bisogno di ricercare, indagare, capire il mondo e i processi reali. Convinto che nulla potesse essere semplificato, ha considerato la complessità la forma stessa del movimento operaio e della lotta di classe. Fu il fautore della nascita e dello sviluppo della straordinaria esperienza dei Consigli di Fabbrica, ma anche colui che aprì la stagione negativa della "concertazione", firmando l'accordo del luglio 1992; convinto, in entrambi i casi, che queste scelte fossero necessarie al movimento operaio. Le sue contraddizioni sono la manifestzione del coerente e appassionato attaccamento alle sorti del movimento operaio, rischiando anche di sbagliare. E' morto un "maestro"!

Intervista a Bertinotti di Rina Gagliardi

Al telefono, la voce di Fausto Bertinotti è incrinata dall'emozione e dal pianto. Non è facile, questa volta, intervistarlo. Per lui, per la sua generazione sindacale e politica, Bruno Trentin è stato il riferimento essenziale - un maestro, un padre, un'autorità massima. Con un rapporto personale tanto lungo e intenso, quanto complesso, segnato anche da scontri e rotture. E ora? «Ora avverto prima di ogni altra cosa il senso d'una perdita. Di un vuoto che si è spalancato». Non soltanto dentro di noi, ma nella politica e nella sinistra italiana: «Perchè Bruno Trentin è stato uno dei grandi protagonisti del ‘900» dice il presidente della Camera «Una di quelle figure che sono state, al tempo stesso, dirigenti politici, grandi intellettuali e uomini d'azione - anzi, d'organizzazione. Nessuno di questi diversi lati è separabile dagli altri, e qui, anche qui, è la sua grandezza, la sua statura. Anche per questo dico che ci manca e ci mancherà moltissimo». Proviamo a ordinare il fiume di pensieri e parole che scorre dentro la narrazione di Bertinotti.


Se dovessi spiegare a un giovane chi era Bruno Trentin, e quale ruolo ha svolto nel sindacato, nella politica, nella sinistra italiana, che cosa diresti? Non si può spiegare in poche battute chi era Bruno, che cosa ha fatto, che cosa ha detto. Non si può "semplificarlo", giacchè per tutta la sua vita ha avversato ogni genere di semplificazione, anche quando questa pareva obbligata dalle circostanze o, addirittura, conveniente. Non ha mai accettato, per esempio, lo "schema duale": anche quando le alternative sembravano ridursi a due, e a due soltanto, Bruno lavorava sulla "terza via", sul possibile effetto di spiazzamento che era necessario costruire per il movimento operaio. Questa capacità critica e creativa, questo assillo "posizionale", volto non a se stesso ma agli interessi del campo in cui militava, ai bisogni di classe, è stato, credo, una sua cifra essenziale. Ciò che lo ha reso un grande, grandissimo dirigente del sindacato, di livello internazionale e di statura ineguagliata.
Ma, per rispondere a quel giovane, direi anche che Bruno è stato anche e soprattutto uno straordinario intellettuale. Con la propensione solitaria che hanno tutti i grandi intellettuali, dominati dall'assillo a ricercare, indagare, capire il mondo e i processi reali - la sua passione per la montagna e l'arrampicamento, con compagni ed amici come Dado Morandi (insieme, mi pare, aprirono una via sulle Dolomiti che tentarono di chiamare "via Fiom") è in totale coerenza con questo gusto della riflessione e dell'innovazione teorica. Si può forse dire che Bruno aveva due gambe: l'una era la passione per lo studio e la ricerca, l'altra era la passione per il movimento operaio, e segnatamente per l'organizzazione del movimento operaio.

I giornali di oggi dedicano alla scomparsa di Bruno un certo spazio. Ma lo fanno con grande superficialità, errori e grandi omissioni - non ricordano neppure, per dire, che era figlio di Silvio Trentin e che per questo era nato in Francia. Perché? Anch'io ho reagito male alla lettura della maggior parte dei quotidiani. Non è solo una questione di spazio, o di povertà di particolari. Tutti i giornali parlano di lui, per esempio, come dell'"uomo della concertazione", che firmò gli accordi del luglio '92 e avviò una nuova stagione del sindacato. Ma tutti dimenticano di mettere in evidenza, o perfino di citare, la sofferenza che quella firma gli costò, tanto da spingerlo a dimettersi da segretario generale della Cgil - io lo ricordo bene il suo dramma, il suo tormento, la sua percezione di una scelta che aveva dovuto compiere "in stato di necessità", ma che segnava una drammatica sconfitta. Insomma, è come se non si sapesse collocare Bruno Trentin, la sua figura, né nella sua complessità né nella dimensione storica che gli compete. Lo sai che quando in Spagna, finito il franchismo, rinacquero le Comisiones Obreras, gli scritti principali di Trentin furono assunti come base di riferimento del nuovo sindacato? O che, quando capitava di andare in Australia, il capo dei metalmeccanici di Sidney per prima cosa ti chiedeva notizie di Bruno Trentin e alla fine ti pregava di porgergli i suoi reverenti saluti? Per anni e anni, questo è stato il suo prestigio nel mondo. Ma non si può davvero capire chi era, se non si è ascoltato un suo intervento al direttivo della Cgil, un suo discorso a una riunione dei consigli, un suo comizio davanti alla pista di Mirafiori. Sia che avesse come interlocutori Lama o Scheda, sia che parlasse agli operai, usava lo stesso linguaggio - cioè lo stesso rispetto. In questo - lui che era stato tra i primi a segnalare la necessità di rivedere "Americanismo e fordismo" - era autenticamente gramsciano: ai lavoratori, al popolo, si devono fare anche discorsi "difficili". Cioè non si semplifica, non si banalizza, non si cerca mai un facile consenso, se il prezzo da pagare è la riduzione della complessità d'un problema o d'una situazione....

...non fece mai, insomma, alcuna concessione al populismo Odiava il populismo, e ne era lontanissimo. Al punto da non amare neppure la popolarità - né quando era il massimo dirigente della Cgil né, anni dopo, quando era diventato europarlamentare e continuava a fare politica, sulla base di un imperativo etico insopprimibile, ma forse era deluso dallo stato del mondo e della politica. Per formazione, temperamento, vocazioni, non poteva stare davvero a suo agio nella politica degradata del nostro tempo. Ma, vedi, sarebbe del tutto sbagliato dire che Bruno era un uomo del passato: era, al contrario, un uomo dentro una grande storia, che ne viveva il flusso, il divenire, gli sviluppi possibili con straordinaria aderenza e lucidità. Oltre l'immediatezza, l'istantaneità, la superficialità dell'attimo presente.

Ma Bruno Trentin è stato anche e soprattutto uno dei padri veri della sinistra sindacale. Un “eretico”, forse. Un uomo che ha contribuito a rinnovare radicalmente lo stesso sindacato.Tu sei figlio soprattutto di questa storia. Come puoi sintetizzarla? Sì, certo, la sinistra sindacale – che è stata una esperienza fondamentale,enorme,da Torino a Venezia ad altre grandi realtà – ha contratto con Bruno Trentin un vero “debito filiale”. La prima “grande svolta” di Bruno,in uno storico congresso della Cgil, fu quella che portò alla scelta della contrattazione articolata, come la frontiera più avanzata, in quel momento, dello scontro di classe: insieme a Garavini,a Vittorio Foa e ad altri,Trentin contribuì a ridefinire il primo cardine dell’autonomia sindacale, l’autonomia dai padroni. Che era poi il prodromo del secondo cardine, l’autonomia dai governi – anche dal primo governo di centrosinistra, agli albori degli anni ’60, che fu ovviamente un banco di prova ben più duro, rispetto al rapporto con i tradizionali governi centristi o democristiani. Il terzo cardine fu anche il più audace: autonomia dai partiti. La scelta del sindacato dei consigli, la nascita del movimento dei delegati, insomma la grande stagione operaia tra la fine dei ’60 e i ’70 trova in lui, forse, la figura più rappresentativa. Credo che sia sua la formula del sindacato come “soggetto politico”. Formula che non aveva nulla a che fare, s’intende, con tentazioni anarco o pansindacaliste: Trentin sostenne, a ragione, la “pari dignità” del punto di vista operaio e sindacale con quello politico-partitico, e soprattutto rifiutò la pratica tradizionale della subordinazione del sindacato alle direttive del partito di riferimento Una scelta che maturò sulla base sia del ruolo che attribuiva alla soggettività - l'autoeducazione democratica dei lavoratori organizzati, forse qui c'entra anche la sua matrice azionista - sia dell'analisi strutturale che andava conducendo in quegli anni. Tra i '60 e i '70, in due successivi convegni del Gramsci, sulle tendenze del capitalismo e sul rapporto tra scienza e organizzazione del lavoro, Bruno fu tra i grandi innovatori, e contribuì in modo determinante a rompere con il paradigma della "arretratezza italiana", del capitalismo straccione che per anni aveva guidato le scelte del Pci e orientato quelle del movimento operaio.

Non sarebbe onesta, questa intervista, se non ti chiedessi di parlare adesso del periodo di scontro che hai vissuto con Trentin, quando hai promosso "Essere sindacato" e la nuova sinistra dentro la Cgil. C'è stata tra di voi una tensione fortissima, mi ricordo bene, quasi una rottura. Come ricordi, ora, questi momenti? Con Bruno mi è capitato di dissentire in più d'un momento - per esempio sulla svolta dell'Eur, poi sulla scala mobile, tagliata da Craxi nel l'84, o, ancora prima, sulla conclusione dei 35 giorni della Fiat. Erano dissensi seri, che però non compromettevano mai il comune senso di appartenenza alla Cgil e alla sinistra della Cgil - anche quando litigavamo, alla fine tra di noi restava la complicità, oltre che l'amicizia e, da parte mia, una sorta di rispetto filiale - o meglio il rispetto che un discepolo, per quanto ribelle, deve a chi gli ha insegnato quasi tutto. Ma all'inizio degli anni '90 fu diverso: la rottura avvenne non su una singola scelta, ma sulla strategia. La concertazione come strada obbligata per il sindacato italiano, che pattuiva con Governo e imprenditori una tregua sociale in cambio del riconoscimento di un ruolo "stabile" nelle scelte generali di politica economica - per me era il passaggio alla "istituzionalizzazione" del sindacato, la rinuncia alla sua autonomia non tattica ma soggettiva e di movimento. Fu proprio Bruno, che era allora il segretario generale, a condurre in porto quella scelta, con tutta la determinazione che gli era consueta, anche quando e se per caso aveva dei dubbi...


Secondo me, si considerava "tradito" dalla tua battaglia di opposizione interna e dalla tua scelta di arrivare a presentare una mozione contrapposta. Rompevi, ad un tempo, sia l'unità dell'organizzazione, che per lui era un culto, un valore supremo e sovraordinatore, sia la solidarietà della sinistra sindacale, che aveva ottenuto, proprio con la segreteria Trentin, il suo primo vero riconoscimento. Per tutti e due, credo, questo conflitto è stato fonte di sofferenza, oltre che di litigi furiosi e parole pesanti. O mi sbaglio? No, non ti sbagli. Bruno arrivò anche a minacciare provvedimenti disciplinari, espulsioni, e altre cose terribili. Eppure, non mise in pratica nessuna di quelle minacce: le usò quasi come un'arma estrema di moral suasion , per convincermi a tornare sui miei passi. In verità, penso che non ebbe mai l'intenzione di cacciarmi via, per ragioni di fondo - per le sue intime convinzioni liberali e democratiche. E poi ricordi il congresso di Rimini, quando Bruno svolse quasi l'intero intervento conclusivo su di me? Non c'erano margini di ricucitura, per ragioni politiche, ma c'era pur sempre, e sempre è rimasto, un rispetto profondo. Il bisogno, magari autorepresso, di spiegarsi, di parlarsi, di convincersi.

C'è qualcosa, ora, che rimpiangi, o di cui ti rammarichi? Quel sabato mattina dell'estate '92, Bruno mi convocò nella sua stanza, e mi comunicò che intendeva rassegnare le sue dimissioni da segretario della Cgil. Anzi, mi fece leggere la lettera che aveva già scritto e che si preparava a rendere pubblica. Fu un incontro dominato da una fortissima tensione emotiva - tra di noi scattò una sorta di armistizio, una tregua, che però le parole non poterono o non riuscirono ad esprimere. Anche se non ero d'accordo con le sue scelte, lui era pur sempre Bruno Trentin - con la sua storia, la sua autorevolezza che non potevo disconoscere, e il legame politico e personale che per tanti anni ci aveva unito. E in quel momento avrei potuto - dovuto - esprimergli la mia solidarietà con un gesto o una parola in più di tenerezza. Non lo feci. Ed oggi rimpiango molto di non averlo fatto.

Liberazione, 25/08/2007